Questa mattina, a colazione, da un tavolo vicino, sentiamo provenire una voce di una mamma che, gridando, imperiosa, dice alla figlia:
“la prossima volta non ti portiamo più!”.
Passano pochi secondi e scoppia l’inevitabile pianto.
Ma non è un pianto qualsiasi.
È un pianto disperato.
E su frasi del genere, noi adulti, dovremo riflettere a lungo, con molta calma, perché sono esattamente parole come queste a creare ferite profonde e che, a volte, non si rimarginano più.
Talvolta, infatti, tanti cosiddetti “blocchi” della vita adulta, a partire dalle relazioni disfunzionali, passando per un cattivo rapporto col proprio corpo e le proprie abitudini, per arrivare all’accettazione di lavori precari o situazioni di abuso sul luogo di lavoro, hanno proprio a che fare con una svalutazione, un’esclusione, una repressione vissuta da bambini.
Ma c’è una cosa ancora peggiore, ovvero, che siamo stati culturalmente persuasi del fatto che ai bambini sia “normale” rivolgerci in questo modo.
Prova, infatti, a pensare alla stessa frase, ma detta a un adulto.
Anzi, a “un adulto” è ancora generico: prova a immaginare che queste parole siano rivolte a te mio caro lettore, o lettrice. Prova a immaginarle a sentirle:
“La prossima volta non ti invito più” o “d’ora in poi non ti chiamerò più” o, ancora “con noi non uscirai più“.
Le hai sentite?
Hai immaginato che a pronunciarle sia qualcuno a cui vuoi bene?
Che effetto fa?
Praticamente nessuno si sognerebbe di dire una frase del genere (anche se c’è, sicuramente, chi la pensa) ma, se accadesse, basterebbe pronunciarla una volta per minare profondamente l’autostima, o rompere per sempre un’amicizia.
In pratica, prima di fare o dire qualcosa a un bambino, potresti provare a chiederti se ti comporteresti così con una persona della tua età.
Spesso, sarebbe sufficiente questo.
Il futuro lo cambieranno i bambini.
Ma affinché i bambini cambino, e cambino il futuro, c’è bisogno che gli adulti cambino con loro.
Un fanciullesco abbraccio a tutti
Elvio
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